La differenza tra le generazioni è un argomento che mi prende, che mi piace approfondire, sviscerare e cercare di comprenderne le dinamiche.
Tra le tante sfaccettature, c’è una tesi che mi ha colpito in particolare: la mia generazione (e forse anche quelle future) è la generazione che ha ricevuto più rifiuti nella storia.
La prima volta che ho sentito parlare di questa idea è stato in un video di Mr. Rip, uno youtuber italiano che vive a Zurigo, ex Google, oggi finanziariamente indipendente. Il video si intitola “Cosa significa essere giovani oggi?” e prende spunto da un articolo del New York Times dal titolo “We Are the Most Rejected Generation”.
Un tema simile è trattato anche in Business Insider, che racconta come la “nuova generazione” — indicativamente, chi ha meno di 35 anni — sia esposta a un numero di rifiuti senza precedenti.
E non si tratta solo di rifiuti “grandi” e memorabili, ma anche di una quantità infinita di micro-rifiuti quotidiani.
Dove incontriamo più rifiuti
Oggi veniamo rifiutati, o ci esponiamo al rischio di esserlo, in più contesti che mai:
- Ammissioni a percorsi formativi e borse di studio
- Candidature di lavoro e stage
- Relazioni affettive e incontri
- Applicazioni di dating
- Moderazione algoritmica
- Mercati saturi
Non è solo la quantità a essere diversa: è anche la modalità.
Molti rifiuti oggi sono impersonali, filtrati da un algoritmo, o comunicati con un’email automatica.
Un esempio: le relazioni
Pensiamo all’ambito affettivo.
I nostri nonni, nella maggior parte dei casi, si sposavano il loro primo amore. Forse avevano vissuto un unico rifiuto, due al massimo.
I nostri genitori, invece, hanno avuto più occasioni di incontrare persone, frequentare ambienti diversi, sperimentare relazioni: più possibilità, ma anche più “no” ricevuti.
Oggi? Oggi viviamo in un mercato dell’amore in formato app.
Possiamo conoscere decine di persone in una settimana, ma per ogni “match” ottenuto ci sono decine di swipe a sinistra, rifiuti che non sempre percepiamo come tali, ma che si accumulano. E quando una conversazione si interrompe senza spiegazioni, ecco il ghosting: un rifiuto silenzioso, ma che lascia comunque traccia.
Più possibilità significa più opportunità… ma anche più rifiuti.
Un altro esempio: il lavoro
Candidarsi per un posto di lavoro oggi è un processo in gran parte digitalizzato.
Compili un modulo online, invii il CV e, nella maggior parte dei casi, ricevi una risposta standard: “Grazie per l’interesse, ma abbiamo deciso di proseguire con altri candidati”.
A volte non arriva nemmeno quella.
In passato, un colloquio andato male era comunque un momento di interazione umana.
Oggi un algoritmo può scartare la tua candidatura in meno di un secondo perché non hai inserito una parola chiave nel CV.
L’altra faccia della medaglia
Ma, come fa notare anche Mr. Rip, c’è sempre l’altra faccia della medaglia.
Se da un lato per noi è cresciuta enormemente la possibilità di candidarci a più lavori, conoscere più persone o proporci in più contesti, dall’altro lato c’è chi riceve questa mole di richieste. Un’azienda che pubblica un’offerta oggi può trovarsi con centinaia, se non migliaia, di candidature; una persona su un’app di incontri può ricevere decine di messaggi in poche ore.
Più è facile applicarsi o “fare il primo passo”, più diventa necessario automatizzare il rifiuto: email precompilate, algoritmi di screening, swipe silenziosi. Sembra la naturale evoluzione del processo, un aumento proporzionale delle possibilità e dei “no” che ne conseguono.
Un tempo, candidarsi per un lavoro o corteggiare qualcuno implicava un investimento concreto: prepararsi, informarsi, dedicare tempo e attenzione. Oggi, la facilità di “lanciarsi ovunque” ci porta a moltiplicare tentativi con un impegno minore per ciascuno.
Perché lo facciamo? Forse per paura di restare esclusi, di non trovare mai “quella” occasione giusta. E se davvero fosse questo timore a muoverci, perché oggi è così forte? Qui, il mio ragionamento si ferma: non so se sia una nuova forma di insicurezza collettiva o semplicemente il prezzo della sovrabbondanza di possibilità.
Una nuova parola
Oggi abbiamo cognato parole per ogni tipologia di rifiuto.
- Ghosting: quando una relazione, sentimentale, amicale o lavorativa, si interrompe improvvisamente e senza spiegazioni.
- Quiet quitting: smettere di impegnarsi oltre il minimo necessario, una forma di rifiuto silenzioso verso dinamiche di lavoro percepite come ingiuste.
- Orbiting: sparire da una conversazione diretta ma continuare a osservare la vita dell’altro sui social.
- Breadcrumbing: dare segnali di interesse minimi e discontinui, senza un reale impegno, per tenere l’altro “agganciato”.
- Soft decline: dire “no” in modo ambiguo o non definitivo, lasciando l’altro in sospeso.
- Phubbing: ignorare una persona durante un’interazione dal vivo per concentrarsi sul telefono, segnalando disinteresse o distrazione.
Sono etichette nate in gran parte dall’uso dei social e delle app, che danno un nome a sfumature di rifiuto che prima forse esistevano ma non ci interessava?
In un certo senso, il fatto stesso che abbiamo bisogno di inventare queste parole racconta quanto il fenomeno sia diventato diffuso e riconoscibile. E forse, più che un dizionario dei rifiuti, oggi ci troviamo davanti a un vero e proprio vocabolario della distanza.
Siamo la generazione che vive nei micro-rifiuti
Forse la differenza più grande rispetto alle generazioni precedenti è questa:
noi viviamo in una condizione di micro-rifiuto costante.
Non sono solo le grandi delusioni a pesare, come una rottura importante o un licenziamento, ma la somma di piccoli, ripetuti “no” che riceviamo ogni giorno, spesso senza nemmeno un volto o una voce a pronunciarli.
Un post ignorato. Un messaggio senza risposta. Una candidatura chiusa dopo cinque minuti.
Non sembrano eventi importanti presi singolarmente, ma, accumulati, creano una sensazione diffusa di frustrazione.
Tra individuo e specie, la mia domanda
Chiudo con una domanda aperta, senza risposta: È meglio vivere in un mondo pieno di opportunità, ma costantemente segnato da micro-rifiuti e rare accettazioni, oppure in un mondo più ristretto, con meno possibilità ma più conferme e riconoscimenti?
E forse la risposta cambia se la guardiamo dalla prospettiva della specie umana, più che del singolo individuo. Per la collettività, un sistema che moltiplica le opportunità, anche a costo di molti rifiuti, potrebbe avere senso: permette di scoprire talenti straordinari, accelerare innovazioni o trovare il miglior scienziato, medico o pensatore. Ma per ciascuno di noi può risultare faticoso e frustrante.
Allora ecco altre domande (come canta Max: “Di domande ne ho quante ne vuoi)”: quale equilibrio vogliamo davvero? Uno che favorisca il progresso della specie, anche a costo della frustrazione individuale, o uno che protegga la serenità e le conferme di ciascun individuo?
Esistono alternative differenti?

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