Viviamo in un mondo che fa rumore.
Un rumore costante: parole, opinioni, riunioni, notifiche, messaggi, contenuti. Tutti parlano. Tutti spiegano. Tutti mostrano. Tutti espongono.
Oggi il silenzio è sospetto. Chi parla poco viene visto come timido, indeciso o incompetente. Curioso, vero? Più alzi la voce, più sei percepito come sicuro. Ma sicurezza e valore non sono la stessa cosa.
Susan Cain, in Quiet, lo spiega bene: la nostra società premia l’estroversione. Convincere, apparire, “vendere” le proprie idee conta spesso più di avere idee solide. Brillare all’esterno è più valorizzato che costruire in profondità.
Così, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei gruppi, le persone competenti e riflessive restano in secondo piano. Non perché manchino di talento, ma perché non vogliono imporsi. Non perché non abbiano qualcosa da dire, ma perché non sentono il bisogno di gridarlo.
Il paradosso è chiaro: siamo circondati da parole, ma perdiamo contenuto. Confondiamo sicurezza con saggezza, visibilità con competenza, velocità con chiarezza.
Eppure, il silenzio non è vuoto.
Il silenzio è spazio.
È lì che le idee maturano, che l’ascolto diventa comprensione, che chi è introverso trova energia per pensare davvero.
Non sto idealizzando l’introversione. Sto dicendo che l’equilibrio si è spostato troppo. Un team, una società, una comunità hanno bisogno di chi parla e di chi osserva. Di chi entusiasma e di chi porta lucidità.
Ma non illudiamoci: non cambierà da un giorno all’altro. La nostra società, sempre più americanizzata, cerca convincimento, non direzione.
Ha bisogno di front-man carismatici. Non importa se operativamente competenti: devono saper vendere. Parlare al momento giusto. Apparire sicuri.
In questo mondo dominato dall’immagine e dalla comunicazione, il linguaggio pesa più del pensiero. L’apparenza conta più della sostanza.
Io non intendo dare il mio sostegno alla società dell’apparenza.
Non voglio partecipare alla corsa a chi urla più forte.
Nelle conversazioni che scelgo di avere, cerco di riportare l’attenzione sulla sostanza. Quando qualcuno parla solo per essere ascoltato, provo a fare domande che scavino più a fondo. Quando il discorso corre veloce e superficiale, provo a fermarlo, anche a costo di sembrare antipatico. Quando le idee sembrano disperdersi nel rumore, provo a creare spazio per riflettere.
Non lo faccio per apparire, né per convincere. Lo faccio perché credo che l’equilibrio sia possibile, se solo qualcuno tentasse di costruirlo.
Ogni piccolo tentativo conta: non posso cambiare la società, ma posso provare a far sì che, in ogni conversazione, emergano profondità e chiarezza. Posso essere un piccolo catalizzatore di riflessione, un promemoria silenzioso che il valore non sta nell’apparenza, ma nella sostanza.
Non sarà sempre facile. Non tutti apprezzeranno questo approccio. Ma se non provo a farlo, l’equilibrio continuerà a spostarsi, e il mondo non smetterà di parlare.

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